Pappalardo Pippo - Di mia a tia

Di mia a tia

Sulla poesia Di mia a tia che apre la silloge di poesie in dialetto, che appunto da questa desume il titolo, di Pippo Pappalardo, troviamo questa riflessione: "E' triste per un padre pensare che i figli sono lontani perché in Sicilia non hanno trovato lavoro." Da questa intima pena di lui come padre sgorgano i versi che si incentrano sulla necessità del distacco dalla propria terra per il giovane che qui non trova risposta, dopo tanti sacrifici nello studio, alle sue speranze e alle sue aspettative: "Lassu sta terra e mi chianci lu cori / pirchì lassu lu suli e lu mari. / Travagghju cca non ni pozzu truvari / e, senza lu travagghju, un omu mori." Ma non si tratta solo di dar voce al sentimento, in Pippo Pappalardo, ma c'è di più. Egli prende in esame un aspetto più profondo ancora: in questo distacco, che in fondo poi impoverisce la Sicilia stessa, c'è per chi si allontana, lo strappo della propria identità: "Di mia a tia, no! non rresta nenti!" C'è la perdita delle radici. Ecco. Le radici, di una persona come di una gente, sono il fulcro attorno a cui ruota tutta l'opera, il cuore di questa, il motivo ispiratore di tutte quante le poesie anche se apparentemente, nella diversità dei contenuti, potrebbe non sembrare così. E, continuando, sono appunto le radici, questa volta non sotto l'aspetto della perdita ma dell'attaccamento, che riportano alla memoria del poeta il paesello natale, Paternò, e ancora gli affetti familiari, la madre e la moglie, che ormai non ci sono più, e infine la gente del paese dove ha vissuto fino a ventitré anni per poi trasferirsi, comunque sempre in Sicilia, a Palermo. L'attaccamento alle radici gli fa rievocare persone e circostanze di un tempo lontano, verso cui ha accenti di gioia e di malinconia, di tenerezza e umanità, che rendono i versi assai suggestivi e poetici. Troviamo allora l'accostamento della madre scomparsa all'odore del pane caldo che ella di buon mattino sfornava: "Agghiorna…Mi sbìgghiu cc'un gran ciàvuru di pani. E' caudu…lu pani caùdu a mia mi fa prïari: m'a sentu ancora cca, la me mammuzza"; troviamo la invocazione al firmamento che renda splendente il suo giardino per l'accoglienza alla fidanzata: "Stiddi, stasira vui mât'a mpristari / tantìcchia picca d'argentu e lustrura, / di chiddi ca sbrizzia la luna a-mmari / quannu la notti astuta li culura. / Ccu ssa lustrura m'ât'a illuminari / l'arvuli dô jardinu…D'argentu m'ât'a tìnciri la casa / sennu ca ora â-vvenniri a me zzita"; ancora le lodi di ammirazione per la moglie: "…occhi lucenti di bontà e priìzza,/ fìgghia amurusa e matri di valuri. / Ggiòia pi mia e di li fìgghi onuri" e insieme il rimpianto: "Li sentimenti tènniri e sinceri / si spèrsiru. Lu tempu dê palori / si cunzumò com'ògghiu 'i cannuleri." Le radici inoltre sono vive ancora in lui anche nel ricordo della gente del suo paese che rievoca in occasione del Venerdì Santo: "A prucissioni / scinni dâ scalunata a passu lentu. / Un misereri si iunci a lu ventu, / ùmili cantu di ggintuzzi bboni". E il richiamo delle radici fa sì che egli ritorni ancora oggi, a distanza di tempo, ogni anno, nei luoghi a lui tanto cari: "Passò ddu tempu…/ Ora. turnannu arreri ô me paìsi, / …sulu silenziu e ùmmiri / e lu me cori / ca si ni sta di casa ancora ddà." Ecco lì nelle radici è rimasto il suo cuore. Lì, ancora, in quell'atmosfera che aveva il suo fascino e in certi momenti diventava particolarmente suggestiva, forse proprio lì, le prime avvisaglie in lui di animo poetico. Lì c'è il preludio in lui della poesia. Questo lo possiamo rilevare soprattutto nei versi seguenti di A ciaramedda: "Sunava un àncilu dda ciaramedda." Nel suono lontano della ciaramella ("Na ciaramedda sunava luntanu") egli avverte, (e non è di tutti), l'azione di un angelo, e qui manifesta una sensibilità e una delicatezza d'animo che possono essere i segni rivelatori del suo futuro senso poetico . Come in effetti è stato. Dopo, nella solitudine dei giorni, nella noia delle ore, gli giungerà come consolazione proprio la poesia. Ai suoi versi, che sono sonetti, così infatti si rivolge: "Vi scrissi 'chì la muta sulitùtini / era a me sula dama 'i cumpagnìa. / …Iu mi sintìa tra marteddu e 'ncudini, / ncasatu nni la morsa di la noia; / comu un cavaddu, mi sciugghìi li rrètini / e ncuminciavi a scrìviri ccu ggioia." Ecco la poesia, ed è a questa che affida i suoi ricordi e i suoi pensieri impregnandola dell'amore alla sua terra. E così già possiamo osservare come le radici costituiscano il filo conduttore che lega poesie che a prima vista sembrerebbero estranee le une alle altre, e sono appunto le radici l'elemento comune che conferisce unità a tutte perché se da un lato c'è l'allontanamento però dall'altro c'è l'attaccamento, ma sempre riguardo ad un'unica cosa, le radici. Ed è sempre l'amore per la propria terra che lo spinge anche a lamentare i mali che la affliggono: la prepotenza, la violenza, nelle quali si manifesta la malvagità di una parte di gente, certamente non di buona volontà. E così parole di riprovazione ha per gli uomini perversi, "nimici di l'amuri", che seminano "fami, morti,e scantu / nni sta terra scurdata e ntrâ so ggenti". Esprime invece il suo anelito alla concordia e alla pace nella poesia A grutta :"Ma chi fudda nni ssa grutta! / Quanta ggenti ncutta ncutta! / non c'è friddu, nuddu ammutta, / c'è caluri e umanità. / E, s'a voi sapiri tutta, / mi piacissi stari ddà". E questo ambiente si adatta perfettamente al carattere di Pippo Pappalardo, persona distinta, dal tratto ricco di garbo e di umanità. Mentre, al contrario, è proprio l'uomo non di buona volontà, che con la sua spavalderia impedisce che ciò si realizzi. Ecco perché allora in A me canzuna egli canta tutto, i fiori, il giorno, la notte, l'amore, la vita, e anche la morte ma non canta l'uomo: "…non cantu l'omu 'chì n capisci attunnu / ch'è di sti bbeni patruni u Signuri." Concetto che ribadisce in Discursi di pupi, in cui l'essere umano contravviene ai dettami del Signore: "Ne òdiu ne guerra: / u munnu mori, si mori l'amuri" e fa cattivo uso della libertà: "Si àiu la libbirtà, iù pozzu fari / comu mi pari, senza mpidimenti"; così diversamente dai pupi che ammazzano per giuoco, "L'omini mmeci ammàzzanu daveru" appunto perchè "si sèntinu i patruni di la vita". E non pensano che un giorno dovranno rendere conto a Dio il quale dirà loro, come in Lu iornu di lu ggiudìzziu: " Figghiu miu, / …lassa n terra li sordi e l'onuri. / …Cca cunta sulu la paci e l'amuri." Ecco la pace e l'amore. Ritornando alla poesia A ciaramedda in cui nella sensibilità e nella delicatezza d'animo già abbiamo intravisto quasi il terreno adatto, in Pippo Pappalardo, al sorgere, in seguito, della poesia, sempre nella stessa possiamo ravvisare anche il carattere mite e ricco di bontà dell'autore quando il suono lontano della cornamusa gli suscita il pensiero di essere una pecorella: "Pinzavu d'èssiri na picuredda / pi stari attàgghiu ô Signuri dâ vita." E cosa meglio della pecorella esprime bontà? E una pecorella vicino al Signore. E qui fa capolino anche la fede. A Dio e al mistero che lo avvolge, lo conduce pure il suo ardore di conoscenza, in cui svela la sua predisposizione naturale allo studio della Fisica in cui è laureato. "Si fussi un astronautu e lu me razzu / currissi cchiù dâ luci, issi versu / lu celu infinitu e, comu un pazzu, / circassi i cunfini 'i l'universu." Quasi novello Ulisse alle Colonne d'Ercole. Però, a differenza di Ulisse, egli sa fermarsi di fronte all'Inconoscibile. La ragione cede il passo alla fede. "Ma chi cc'è ddoppu non m'u dici a menti. / La fidi m'arrispunni." E' l'umiltà fondamento della fede, tanto più apprezzabile quanto più si è colti. Ora la bontà d'animo del poeta lo spinge verso il desiderio di far sorridere, di suscitare l'euforia, di rendere la gente allegra. Di qui nasce in Pippo Pappalardo la poesia umoristica. La seconda parte del libro comprende appunto questo genere di poesie. Preferirei, nel caso di Pippo Pappalardo, parlare di umorismo piuttosto che di ironia, termine che, pur se usato ampiamente, però a rigore l'ironia non sempre affonda le radici in un animo benevolo. E non è assolutamente questo il caso del nostro poeta. Il suo è un umorismo fine, elegante, pur se si cala talora nelle situazioni della esistenza quotidiana più comuni e più prosaiche come la taverna. Vi troviamo elementi della vita di ogni giorno, l'euro, il telefonino cellulare; vi troviamo personaggi della vita del paese; ma soprattutto il poeta prende di mira le debolezze umane su cui aleggia il suo fare paterno e il suo sorriso bonario, e di fronte ai vizi come la superbia o la furbizia, si leva l' insegnamento dedotto dall'esperienza: "E' propiu veru: a superbia fa dannu" in U palluneddu o poi in La vurpi e la addina "Parabula vi voli cunzigghiari / ca…/dâ ggenti scartra non v'ât'a fidari." Il culmine dell'umorismo lo raggiunge poi in Un casu ddiffìcili, che sfiora quasi il paradosso. Anche verso se stesso non esclude l'umorismo come in U maccu : "Chi çiàvuru! Si senti for'ê porti…/ n cucchiaru doppu l'àvutru, a pignata / mi si svacanta. Ora veni forti / diri famìgghia: c'è pasta squadata". Infine mi vorrei soffermare su una poesia Ária 'i continenti in cui il poeta esclama: "Ah, quant'è lària l'ària 'i continenti!" e osserva: "…dâ zza Lucìa no rristò cchiù nenti." Ora questa ci richiama il verso della prima poesia: "Di mia a tia, no! non rresta nenti." La zia Lucia ha perduto la sua identità e con questa le sue radici, come avviene per il giovane che emigra in cerca di lavoro. Vorrei pure soffermarmi sulla copertina del libro che raffigura un ragazzo che suona la chitarra. Cosa c'entra? ci si potrebbe chiedere. Ma il motivo è da ricercare in alcune parole del poeta Ignazio Buttitta a proposito del dialetto siciliano: "lingua addutata di patri" è come "chitarra ca perdi na corda lu jornu." Ecco il dialetto è in declino. Anche nella minaccia della scomparsa del dialetto si ha la perdita delle radici. Ed è sicuramente questo il motivo per cui Pippo Pappalardo non ne è solo un appassionato ma ne è soprattutto un cultore, tanto che ha fatto un libro, Scriviri, una guida al dialetto, in cui egli dimostra, oltre una ben salda preparazione umanistica che gli proviene dagli studi del Liceo Classico, anche grande competenza, precisione e ampiezza di orizzonti . Dunque, anche nel suo impegno a far rivivere il dialetto, possiamo notare l'attaccamento alle radici. E tutto si fonde insieme, su tutto c'è unità. In tutta la sua opera c'è perfetta unità. Il libro Di mia a tia è in fondo un accorato richiamo alle radici. E' così che bisogna intenderlo inquadrando in questo tutti gli aspetti che altrimenti risulterebbero slegati tra loro e dispersivi. Invece non è così. Tutto: copertina: titolo e immagine; poesie sull'emigrazione; sugli affetti familiari, sui ricordi del paese natìo; sul male della cattiveria umana; sulla poesia, sulla fede, tutto sembra gridare: "Che il siciliano possa onorare la Sicilia!" E più fortemente ancora: "Che nessun siciliano possa mai più dire alla sua terra: "Di mia a tia, no! Non rresta nenti!"

Maria Elena Mignosi

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